Vai al sito villaggiocrespi.it

Crespi Cultura si occupa di attività culturali, didattiche, di divulgazione,
storico archivistiche, di tutela e salvaguardia.

Crespi Cultura opera nel territorio del Villaggio operaio di Crespi d'Adda.

Tematiche didattiche:

Rivoluzione industriale | Villaggi operai | Città ideali | Socialismo utopistico

Il Villaggio operaio di Crespi d'Adda tra passato, presente e futuro

Il Villaggio Crespi è considerato, col suggello dell’iscrizione nella World Heritage List dell’UNESCO avvenuta nel 1995, il più importante esempio in Italia di villaggio operaio: si è conservato perfettamente integro fino ai giorni nostri e costituisce una delle realizzazioni più complete ed esemplari al mondo. Edificato tra il 1878 e il 1930, nei decenni seguenti non ha subìto nessuna rilevante modifica – pressoché nessuna costruzione è stata aggiunta o demolita – né al suo interno né nell’area circostante. Ancora oggi a Crespi d’Adda è possibile osservare con straordinaria efficacia ciò che la famiglia di industriali cotonieri Crespi volle creare lungo la riva bergamasca dell’Adda: un moderno, elegante stabilimento e un singolare, quasi perfetto, microcosmo sociale per i dipendenti e le loro famiglie. Il Villaggio Crespi è un insediamento formato da un sorprendente numero di costruzioni e di servizi disposti razionalmente all’interno di una struttura armoniosa e compiuta, che metteva a disposizione dei suoi abitanti-operai tutto ciò che serviva loro per l’intero arco dell’esistenza, non solo nella fabbrica ma anche al di fuori del luogo di lavoro. La comunità intera – uomini, donne e fanciulli – era coinvolta, direttamente o indirettamente, nell’attività produttiva della fabbrica e viveva ordinata secondo una logica paternalista di organizzazione ideale, morale e sociale: nelle intenzioni della famiglia fondatrice il Villaggio doveva diventare una piccola isola felice del lavoro in cui tutto si svolgesse sotto il proprio sguardo severo e comprensivo, dove ordine e armonia regnassero, lasciando all’esterno odi e lotte di classe. Questo atteggiamento raggiunse maggiori profondità e risultati nel momento in cui il fondatore Cristoforo Crespi fu affiancato dal figlio Silvio – educato in Inghilterra e influenzato dai modelli lì conosciuti – nella conduzione della fabbrica. “Convinto sostenitore della necessità di favorire con ogni mezzo la perfetta integrazione tra modello sociale e modello produttivo, Silvio Crespi – ha scritto Giorgio Carion – dedicò gran parte delle sue riflessioni di imprenditore a costruire una teoria delle relazioni sociali rispondente alle esigenze dell’industria moderna. Il Villaggio di Crespi nasce e si sviluppa col preciso intento da parte della proprietà aziendale di sovrintendere a tutti gli aspetti della vita sociale. L’idea era di creare un luogo ideale dove gli operai e le loro famiglie potessero vivere nella convinzione di essere privilegiati, con servizi sociali e assistenziali di gran lunga superiori alla media dell’epoca. Ciò consentiva di assicurarsi una manodopera di elevato valore professionale soddisfatta ed appagata del proprio status, garantita sia sotto il profilo della sicurezza del posto di lavoro che nei bisogni essenziali della vita quotidiana”.

I villaggi operai e il caso dei Crespi
I villaggi operai più interessanti ed esemplari sorsero nel periodo in cui nasceva l’industria moderna, per iniziativa di “capitani d’industria illuminati”, desiderosi di soddisfare le esigenze dei propri operai anche al di fuori del rapporto di lavoro. Il processo di industrializzazione portò infatti rapidi e intensi cambiamenti nella società, i quali posero numerose questioni legate alle condizioni di vita del crescente numero di lavoratori impiegati nelle moderne grandi fabbriche. In particolare, la concentrazione di migliaia di operai all’interno dei luoghi di produzione e, conseguentemente, nell’area circostante le fabbriche, fece presto scaturire l’esigenza di un’adeguata sistemazione abitativa: di alloggi per i dipendenti e per le loro famiglie, dei servizi e delle strutture necessari ai bisogni delle comunità che man mano si formavano intorno ai centri produttivi. Superate le iniziali difficoltà e i drammatici casi di squallidi quartieri operai, cresciuti caoticamente e privi di strutture igieniche e sanitarie, si vide il fiorire, specialmente a partire dalla metà dell’Ottocento, di progetti e realizzazioni di gruppi di abitazioni “igieniche e salubri”. I moderni insediamenti erano disegnati con razionalità e riguardo verso le condizioni di vita e di lavoro delle maestranze e dovevano rappresentare lo strumento – sia da parte dei governi che degli industriali – per raggiungere l’obiettivo comune di conciliare laboriosità e pace sociale, di favorire sì lo sviluppo produttivo ma di rispondere anche alle rivendicazioni operaie. I risultati di questi sforzi furono numerosi: dal celebre modello di “casa operaia” presentato all’Expo di Londra nel 1851 (al quale si ispirò il modello di casa operaia di Crespi) fino alle realizzazioni più complesse e articolate, come Mulhouse in Francia, Pullmann City a Chicago e villaggi Krupp a Essen. Nel panorama italiano sono solitamente citate tre esperienze di villaggi operai: Rossi a Schio, Villaggio Leumann a Collegno e il Villaggio Crespi. Il pensiero e i modelli individuati dagli industriali filantropi Crespi sono chiaramente enunciati in una “memoria” scritta da Silvio Crespi stesso, presentata al Congresso internazionale per gli infortuni sul lavoro e pubblicata con il titolo “La vita e la salute degli operai nell’industria del cotone in Italia” (Milano, Hoepli, 1894). “Oldham, Bolton, Accrington, ecc., sono tutte città costruite in tal modo. Ricordiamo con maggior soddisfazione i quartieri operai di Mulhouse […]. Anche in Italia si va ora costruendo su tali modelli; non è nuovo lo spettacolo di piccoli villaggi operai raggruppati intorno all’opificio, ed il modello del genere fu l’opera benemerita della famiglia Rossi nelle città industriali di Schio e Rocchette Piovene”.

Origini e sviluppo dell’impresa
La famiglia dei Crespi, suddivisa in numerosi rami, da lungo tempo esercitava a Busto Arsizio (Varese) l’attività tessile. L’impresa di tal Benigno Crespi, già citata all’inizio dell’Ottocento, produceva tessuti lavorati a domicilio e li commercializzava nel Milanese e nel Lodigiano, dopo averli trattati nella sua tintoria artigianale; da qui l’appellativo di Tengitt (tintori) che valeva a designare questo ramo dei Crespi. A Cristoforo Benigno Crespi (1833-1920), nipote del capostipite, va ascritto il merito d’aver creato Crespi d’Adda. Cristoforo, stimolato dai promettenti risultati imprenditoriali di Vigevano e Gemme, ove si era limitato ad affittare e convertire impianti già esistenti, incentivato dai primi provvedimenti di protezionismo doganale dello stato unitario, dà corpo al progetto di un nuovo cotonificio lungo il fiume Adda: procede all’acquisto di 85 “pertiche” di terreno e ottiene la concessione per 90 anni di derivare acqua dal fiume con un canale lungo 1.029 metri, per una forza di 700 cavalli dinamici, ottenuti con l’ausilio di tre turbine idrauliche. La parte iniziale dello stabilimento viene inaugurata il 25 luglio 1878: il piccolo Silvio Crespi (10 anni) getta la prima manciata di cotone nella caricatrice (loup verticale Crighton), dando inizio al lavoro di 300 operai che utilizzano 5.000 fusi selfacting, forniti dalla ditta inglese Platt-Brothers. Nel 1882 si avvia la prima pettinatura di cotone egiziano, nel 1890 gli uffici di Crespi vengono collegati con la direzione di Milano (presso il palazzo dei Crespi di via Borgonuovo) mediante la prima linea telefonica a lunga distanza in Italia; inoltre viene introdotta nella fabbrica – e nel Villaggio – l’illuminazione elettrica, con il “sistema Edison”. Nel 1894 viene inaugurato, con la presenza della regina Margherita, il reparto di tessitura e negli anni seguenti vengono costruiti anche i reparti di tintoria e finissaggio. Nel 1904 iniziano i lavori per la costruzione della grandiosa centrale idroelettrica di Trezzo sull’Adda, con una potenza di 12.000 HP. Per il trasporto merci, la ditta usufruì dei servizi della linea tranviaria Monza-Trezzo-Bergamo. Risale, infatti, all’anno 1908 l’istanza della ditta Benigno Crespi al Comune di Capriate intesa ad ottenere il benestare per l’allacciamento dei binari interni allo stabilimento con la tranvia, sulla strada provinciale Monza-Bergamo. Fino ad allora merci (e persone) viaggiavano su strada o più spesso per via d’acqua, sul canale industriale e il Naviglio Martesana fino a Milano e viceversa. Dal punto di vista architettonico l’aspetto innovativo dello stabilimento è il suo svolgimento orizzontale in luogo del tradizionale sviluppo verticale delle filande e dei vecchi opifici. I capannoni seriali a shed, con migliore sfruttamento della luce naturale, rispondono anche all’esigenza di funzionalità rispetto allo sfruttamento delle nuove applicazioni meccaniche della trasmissione dell’energia prodotta dalle turbine. Raggiunto il periodo di massimo sviluppo, negli anni Venti, il cotonificio dei Crespi lavora a ciclo completo, dotato di 60.000 fusi e 1.200 telai, con 4.000 dipendenti. La composizione della popolazione operaia varia negli anni, ma rimane costantemente formata in maggioranza da donne, quindi uomini, per lo più con mansioni tecniche, e fanciulli. Un terzo dei dipendenti, la maggior parte con famiglia, risiede nel Villaggio. L’opificio è in grado di produrre filati e tessuti di cotone d’ogni tipo. I filati erano molto diversificati: per maglieria, per tortiglia, per reti da pesca e per pneumatici, per tele e per tutti i tipi di tessuto; filati per cucirini, ritorti, per elastici, ecc. Molti di essi venivano “gazati” per togliere la peluria e “mercerizzati” per renderli brillanti, poi tinti in colore: solidi, diretti, allo zolfo, candeggiati, indantrene, ecc. La gamma dei titoli del filato (la finezza) andava dal titolo 6 al 100. Per quanto riguarda i tessuti osserviamo che con i diversi tipi di telai si ottenevano: tele, poline, damaschi, velluti, fazzoletti, camicerie in genere, satin, rasi, ecc. Il reparto di tintoria-filati preparava i filati tinti da vendere oppure da usare per la tessitura. La tintoria tessuti candeggiava, tingeva e fissava i tessuti grezzi. I due terzi del manufatto erano inviati all’estero: in Medio Oriente, Oriente, Canada, Messico e Stati Uniti. Il cotone proveniva dall’Egitto, Stati Uniti, centro Africa, Iran, Turchia, Messico, Russia, Argentina, Sudan, Brasile, Costa Rica, Guatemala, Nicaragua e anche dalla Sicilia, specialmente negli anni della guerra. Per ottenere il filato si passava attraverso queste fasi di lavorazione: battitura, cardatura, pettinatura, stiratura, banchi, rings. La binatura e la ritorcitura servivano per i filati a 2, 3 e 4 fili. I filati e i tessuti di Crespi erano molto apprezzati e richiesti per la loro ottima qualità.

Il Villaggio oggi: promozione e salvaguardia
Il paese di Crespi oggi sopravvive a se stesso; gli abitanti sono scesi a poco più di 400 e sono in larga maggioranza anziani ex operai del luogo che hanno riscattato la casa trent’anni fa. Quiete e tranquillità regnano, interrotti soltanto dal via vai delle scolaresche in gita e dei turisti domenicali, segno sempre più evidente della crescente attenzione del pubblico, proveniente dal territorio limitrofo come dall’estero. Il grande interesse, poi sfociato nel filone, importante ma forse riduttivo, archeologico industriale, per l’insediamento fabbrica villaggio voluto dai cotonieri Crespi, nasce – fortunatamente, se si vuol pesare il valore della sua integrità – a breve distanza dal momento cruciale in cui, negli anni 1972-’75, la simbiosi tra fabbrica e villaggio venne definitivamente arrestata, lasciando quest’ultimo privo del supporto strategico e della protezione che l’impresa industriale garantiva sin dagli inizi. La vendita frazionata degli edifici e dei terreni dell’allora proprietaria (Rossari e Varzi), che ancora coincidevano con quelli dell’intero microcosmo creato nel passato, sancì il passaggio di Crespi d’Adda ad una nuova fase, dai risvolti appassionanti ma incerti al tempo stesso. Nel medesimo periodo nasce anche, seppur contenuto, l’impegno organizzato nella tutela e nella valorizzazione del riconosciuto patrimonio industriale di Crespi; tale sforzo diviene sentito e doveroso a partire dagli anni Ottanta, incontrando il favore di studiosi, docenti e appassionati, sino alla consacrazione del Villaggio da parte dell’Unesco con l’inserimento nella World Heritage List nel 1995, in quanto “esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa”. Va detto che la consacrazione fu accolta con “provinciale entusiasmo” e considerata foriera di soluzioni ai problemi del borgo, ma oggi essa lascia ai più uno strascico di amarezza per l’acuirsi invece di tutte le questioni lasciate irrisolte, questioni che attendevano la stessa solerzia ed efficacia negli interventi che caratterizzava l’ormai rimpianta gestione privata-aziendale del Villaggio. Salvaguardia e promozione del sito si inseriscono oggi, senza esagerazione, in un quadro di urgenza, viste le incertezze che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, vista la mancanza – derivata certo dall’intrinseca complessità del caso – di un generale coordinamento nella gestione e vista la drammatica, non inevitabile, chiusura totale dello stabilimento. Sottolinea l’impatto della chiusura, anticipata dal presagio dell’arresto del reparto filatura nel novembre 1998 e messa in atto alla fine del 2003, il fatto che l’opificio era straordinariamente attivo fin dalla sua fondazione. In particolare la filatura rimase attiva per ben 120 anni, dal 1878 al 1998, e la tessitura dal 1894 al 17 dicembre 2003, ultimo giorno di produzione per lo stabilimento di Crespi. Va detto che la cessazione dell’attività è stata gestita e considerata più come un trasferimento della produzione in un altro degli stabilimenti di proprietà della ditta (lo stabilimento di Ponte San Pietro del Gruppo Polli), all’interno di un piano di razionalizzazione aziendale. In quel momento i dipendenti erano circa 150, tra operai e impiegati tecnici, ai quali si aggiungevano circa 60 amministrativi. I lavoratori, reintegrati dopo un breve periodo di cassa integrazione motivato dal trasferimento dei macchinari, erano in maggioranza pendolari, ma c’era ancora qualche caso di operaio crespese, che “ereditava” il lavoro del padre e del nonno. Che fare ora di un opificio storico vuoto? Il timore dell’abbandono è forte, e grande la difficoltà di individuare una nuova destinazione d’uso efficace ma consona al valore storico-culturale di Crespi. Elemento chiave nel tentare di accompagnare e risollevare Crespi d’Adda nel nuovo millennio sono le autorità pubbliche di riferimento: Comune, Provincia, Regione, ecc. L’onere della gestione, in termini di impegno tecnico e finanziario, sembra tuttavia ricadere, analizzando gli ultimi cruciali decenni, solo – o soprattutto – sul Comune di Capriate San Gervasio. Le amministrazioni che si succedono a partire dagli anni Settanta riescono, attraverso gli strumenti di pianificazione urbanistica e non senza errori di strategia (come il mancato acquisto degli immobili di maggiore interesse pubblico – castello e dopolavoro in primis – nel momento della dismissione), a contenere gli effetti negativi dello smembramento del microcosmo città- fabbrica. In particolare si sono evitati, in un territorio in massima parte ceduto a privati e in particolare a società immobiliari, i prevedibili tentativi di trasformazione e sviluppo edilizio tendenti alla mera ricerca del profitto e, in ultima analisi, il rischio di perdere la connotazione di ambiente razionalmente strutturato e tuttora riconoscibile, disegnato intorno ad un progetto sociale e industriale di grande valore. Il paese oggi, insieme al territorio che lo circonda, è sì parcellizzato in molteplici proprietà gestite da molteplici interessi (spesso privi di una comune visione di sviluppo, e proprio il dibattito sul riuso della fabbrica ne è un’evidente conseguenza) ma si è dotato di uno strumento urbanistico – il Piano Particolareggiato – di buon profilo e potenzialmente in grado, certo non con le sole risorse locali, di incanalare il proprio sviluppo all’interno di un moderno, intelligente piano di valorizzazione. Intelligere deve significare qui conciliare le esigenze di conservazione con le esigenze dell’abitare di oggi, ossia non esitare davanti alla complessità, peraltro mai invalicabile, di trovare soluzioni vantaggiose sia per chi fruisce culturalmente il luogo, il visitatore, sia per chi lo fruisce civilmente, il cittadino. Non è un caso se l’approccio turistico più apprezzato dai residenti privilegia sempre più il ruolo attivo e non passivo della popolazione. Coloro che erano abitanti-operai nel passato, o i loro figli, vogliono essere oggi cittadini pienamente partecipi della fruizione culturale. Infine, non va sottovalutata l’esigenza di costanti finanziamenti mirati a contribuire alle spese di restauro e adeguamento delle parti, pubbliche e private.

Il futuro di Crespi
Quale il miglior scenario futuro per la promozione culturale del Villaggio Crespi? Ipotizzando di poter incontrare gli stessi esiti favorevoli, la valorizzazione del sito di Crespi potrebbe seguire, come la sua stessa concezione iniziale volle mutuare, i più avanzati modelli inglesi. Sulla scia dei casi più eclatanti e meglio riusciti – New Lanark e Styal, ad esempio – ci piacerebbe immaginare la riconversione dello storico cotonificio e annesso quartiere operaio in un sito di grande valenza storico-didattica e paesaggistica, nel pieno rispetto, e vantaggio, della popolazione residente e del territorio circostante, già inserito nel perimetro del Parco dell’Adda Nord. L’ostacolo maggiore a questa ipotesi di sviluppo è legato al ritardo, incolmabile se paragonato al caso anglosassone, col quale nella cultura italiana si è affermato l’interesse per il patrimonio industriale, ritardo che nella fattispecie di Crespi ha portato all’eliminazione pressoché completa – se si eccettua la centrale idroelettrica di inizio secolo – dei macchinari utilizzati nel passato e, di conseguenza, all’impossibilità di ricostruire e illustrare le fasi del ciclo produttivo nei medesimi modi, efficaci e appassionanti, delle fabbriche-museo inglesi. Al momento possiamo comunque vantare la presenza di un numero rilevante di visitatori che fruiscono delle attività culturali e didattiche offerte – svolte in massima parte all’interno del Villaggio e non nella fabbrica e centrate sugli aspetti storico, sociale, architettonico e paesaggistico – in particolare visite guidate al sito e percorsi lungo il fiume Adda.